Poesia e Narrativa
Soffitto
Sveglio. I miei occhi, infastiditi dalla luce entrata dalla finestra, avevano difficoltà ad aprirsi. La prima immagine che vidi era quella del mio terribilmente neutrale soffitto bianco. Contemplai l’immagine per qualche secondo. Solo Dio conosceva l’odio che provavo per quel soffitto e per quelle pareti bianche. Eppure all’inizio pensai fosse un’idea brillante pitturarle di quel non-colore. Scuotendo la testa mi alzai dal letto. Cercai di muovere i primi passi verso la cucina, mi fermai quasi subito dopo il secondo tentativo per strofinarmi ancora una volta gli occhi.
Quando li riaprii, stavo camminando per Harrington Road. Me lo sentivo che quella era una mattina diversa dalle altre. L’aria di Londra mi sciacquò la faccia. Il grigiore cupo della città ero lo stesso descritto nei libri di Dickens, ma l’atmosfera, come al solito, risultava frizzante. Dove mi stavo dirigendo? Da quanto stavo camminando? Cercai di fare mente locale. Riuscì a rispondere solo alla prima domanda. Ero diretto verso South Kensington Station. Notai intorno a me decine di persone sole o semplicemente accompagnate dal loro fidato cane. Forse stavo andando in ufficio come tutti loro.
Percepii tutt’a un tratto un forte senso di isolamento, sia fisico che mentale. Odiavo quei momenti, forse aveva ragione mia sorella, avrei dovuto comprarmi un cane quando ne avevo l’occasione. Uno dei tanti quadrupedi cominciò ad abbaiarmi contro. Decisi, allora, di accelerare il passo per scrollarmi di dosso quella strana sensazione oppressiva che mi stava tormentando. Uno, due. Uno, due. Ad un tratto ebbi paura di perdere il ritmo o dimenticare come mettere un piede dopo l’altro. Non riuscivo ad ordinare in maniera logica la percezione di ciò che stava accadendo intorno a me e delle mie conseguenti sensazioni. Mi trovai finalmente davanti la stazione. Senza pensarci troppo entrai nella stazione.
Timbrai il biglietto. Scelsi la Picadilly Line, direzione Cockfosters. Arrivai alla banchina e cominciai ad aspettare. Passò un periodo di tempo indeterminato. Notai una ragazza nell’altra banchina, non fu una caratteristica del suo aspetto fisico ad attirare la mia attenzione, ma il suo atteggiamento. La sua testa era chinata e i suoi occhi fissavano l’orologio legato al polso. Le contrazioni del suo viso lasciavano trapelare una certa ansia. Quando la rialzò, i nostri sguardi si incrociarono e si trattennero.
La metro arrivò occupando il mio intero spazio visivo.
Guardai in basso mentre tutte le persone nella banchina cercavano spazio all’interno dei vagoni. Non avevo intenzione di salire su quella metro. Mi voltai per cercare la direzione dell’uscita ed, eccola lì, di fronte a me la ragazza della banchina opposta. Istintivamente feci un passo indietro, la sua mano trattenne il mio braccio impedendomi di perdere l’equilibrio. Mi chiese scusa e successivamente mi domandò di rifarlo. Di rifare cosa? Mi domandò di riprovare il nostro gesto umano, quel momento di contatto. Stop, avanti, vai di là , vai di qua, mi spiegò come la sua vita era scandita solo da azioni di sopravvivenza, ormai ogni forma di comunicazione veniva utilizzata esclusivamente a mantenere il formicaio operoso ed educato. Lei voleva vedere e allo stesso tempo voleva che io vedessi lei. Creò un contatto.
Incontrai questa ragazza per caso e invece di ignorarmi decise di accettare il confronto tra le nostre anime. Strattonò la manica della mia giacca per avvicinarmi a lei. Sussurrò il suo desiderio di liberare quel ricordo offuscato dei coraggiosi Dei che abbiamo dentro di noi. Affrontare l’un l’altro attraverso il linguaggio, ovvero una forma di desiderio di trascendere il proprio isolamento. In principio era il Verbo, il Verbo era Dio. Al suono di quelle parole venni travolto da infinite esperienze tangibili. Un forte calore si propagò lungo il mio corpo, la mia anima si stava risvegliando.
All’improvviso una fitta insopportabile alla testa. Cazzo! Scossi la testa. La scossi nuovamente. La sveglia suonò per la decima volta. Le 08.00. Tardi, troppo tardi. Dovevo correre e soprattutto dovevo smetterla di fissare quel dannato muro bianco, altrimenti prima poi mi avrebbe ucciso o, peggio ancora, fatto licenziare.
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Oscar Raimondi
Sognavo leoni, lontano da ogni cosa sbagliata che invece era quella giusta.
Ci siamo dichiarati guerra quando di volerci guardare in faccia non ne volevamo sapere, abbiam fatto decidere a mille estranei corpi morti di domani, e adesso siamo molto più lontani di quanto siamo mai stati.
Il tuo viaggio fra le macerie di ricordi lasciati a disintegrarsi insieme ai discorsi gelosi e le nostre fragilità .
Se volassimo in alto come i bambini potremmo essere forti, ci siam sempre rifiutati di star normali, non era abbastanza, non era da noi. E ora guardaci stiamo peggio che mai.
In Palestina c'è ancora la guerra e io e te stiamo a perdere tempo dietro due finestre diverse, senza neanche il coraggio di tirare le tende e guardarci negli occhi, nemmeno una volta.
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Camilla De Foglio
Ti ascolto
Cara Elena,
credo sia questo il tuo nome, se esisti davvero. Ti scrivo questa lettera continuando a ripetermi che tu esisti senza sapere se ti ho incontrata nella vertigine dei miei sogni più profondi, che a stento ricordo, oppure nell’allucinazione del mio desiderio più segreto. Dal giorno in cui per la prima volta sentì la tua voce scandire il mio passo ho smesso di sognare. La notte è pervasa solo da una triste e stancante solitudine. Qui c’è l’infinito, un infinito profondo. Sento la tua voce, una voce che riecheggia forte lungo tutto il mio corpo, la mia anima, lungo tutta l’estensione del mio essere. Chi sei realmente? Tu che pronunci parole che hanno il profumo del mare. Il vento soffia alla finestra e ti sento nuovamente. Sussurri le parole che scrivo e dolcemente canti le parole che leggo. La mia mente sembra decisa a confondermi, intenta a trascinarmi affondo, nell’abisso, ma la tua voce… la tua voce, in cerca di conforto in un luogo sconosciuto, pervasa da una forza brutale, riecheggia nella mia testa e mi dona una forza a me sconosciuta. Ti ho cercato nella vivacità di un mercato qualunque, ti ho cercato nelle immagini, nei suoni e non nelle persone. Mi impongo di osservare ogni suono. I miei occhi sono fessure affacciate su l'infinito, la luce dove sprofondo, mi bagna. Immergendomi nell’immagine decompongo il contesto; non si tratta solo di invadere lo spazio circostante ma anche le persone, i loro territori, i loro confini, e la loro soggettività . Nella ricerca di un suono che ti renda reale scivolo dentro questo mondo a me nuovo e disperatamente fuggo sempre più da me stesso. Sono ancora qui, colmo, assorto in una duplice osservazione. La tua essenza è dentro e fuori di me. Presenza e assenza. Suono e silenzio. All’improvviso ecco nuovamente la tua voce accarezzare il mio volto. Urlo. Rompendomi il petto urlo nella speranza che la mia voce trovi conforto in un altro luogo. Elena…ti ascolto, ecco tutto. Ti ascolto e questo mi basta. Ti ascolto e scrivo inerte senza sapere se riceverò mai una tua risposta.
Con affetto.
Antoine
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Oscar Raimondi
E noi che rincasiamo tardi, ci guardiamo allo specchio e facciamo sempre più fatica a riconoscerci. Le tue nocche scure e il mio labbro morsicato, i miei biglietti degli autobus chiusi in un cassetto, lo stesso cassetto in cui da piccola tenevo i sogni.
I tuoi nastri consumati dai troppi ascolti, i miei elastici persi in giro per il mondo, i capelli che non se ne stanno mai al proprio posto.
E i nostri sguardi lanciati male, mai arrivati a destinazione, i soli che diventano giorno dopo giorno sempre più freddi, sempre più piccoli.
Ci piangeremo e sapremo rialzarci anche quando non ne avrai più voglia, avrò voglia per entrambi sai.
Mi ricordi quel vecchio film, e non so perché, mi ricordi le persone che mi hanno sussurrato di non mollare mai.
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Camilla De Foglio
SÃO VICENTE
Come l’acqua
che liberandosi dalle onde
scivola via tra le pietre nere
di un bagnasciuga ardente,
anche il dolore,
l’amaro
se ne va,
come se qualcuno,
un qualcosa di inaspettato
volesse dimostrare
che è giunta l’ora
di guardare oltre il mare,
di non aver più paura
di udire solo il suono dell’oceano
dentro lo spirito,
dentro le cose,
dentro le anime senza sonno.
Ero dinnanzi alla potenza di questa
natura impertinente,
in compagnia di
un personaggio sconosciuto,
che scriveva senza sosta
brandelli di sensazioni libere.
Questa identità non ancora identificata
era un ‘anima che sentiva di sentire,
percepiva emozioni lontane ascoltando da vicino.
Avvertiva il battito del manto ondoso,
che schiumando non voleva fermarsi.
Ma la figura ignota in questione
non riusciva a vedere
il suo essere,
il suo stare in mezzo
al reale.
In verità questa
caricatura sconosciuta,
che ascolta e sente,
sono io.
Le mie anime che
osano parlare tra di loro
su tutto o su niente,
sull’immersione
di un silenzio già noto,
riempiendo le pietre nere,
che istintivamente
avvertono il mio scrivere
come complici di vita.
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Tesera Oliveira Logreco
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